Un impegno che raddoppia

Un impegno che raddoppia

  • Postato: Apr 02, 2020
  • Di:
  • Commenti: 0

In questo momento di emergenza sociale “Il cibo che serve” raddoppia il proprio impegno. In linea con le misure previste dal Decreto Cura Italia, riguardanti la distribuzione di generi di prima necessità, potenziamo la nostra attività di recupero di eccedenze alimentari, da distribuire alle associazioni caritatevoli e alle parrocchie che sono quotidianamente al servizio delle persone più fragili.

Per noi il cibo è vita e adesso più che mai non ne va sprecata neanche una briciola.

Un impegno che portiamo avanti anche grazie al sostegno della FAP ACLI di Roma, scesa al nostro fianco per rafforzare il nostro aiuto rivolto agli anziani che in questo periodo stanno si trova a dover affrontare situazioni di grave criticità. Noi ci siamo e continueremo ad esserci grazie alla nostra rete solidale e all’enorme lavoro dei nostri volontari che tutti i giorni sostanziano quel concetto così prezioso che porta il nome di Bene Comune.

ACLI di Roma e ViVi Bistrot insieme per il Bene Comune

ACLI di Roma e ViVi Bistrot insieme per il Bene Comune

  • Postato: Apr 02, 2020
  • Di:
  • Commenti: 0

Non ci stancheremo mai dirlo il gioco di squadra è il nostro piatto forte. E adesso più che mai, in questo momento così delicato, dobbiamo unire le forze per moltiplicare gli aiuti e non sprecare nessuna opportunità di essere al servizio del Bene Comune.

E allora siamo felici di sposare l’iniziativa benefica di ViViBistrot, partner del nostro progetto di recupero alimentare. Per contrastare l’emergenza sanitaria COVID-19 sta promuovendo  “La Spesa Sospesa” che prevede l’acquisto di prodotti di uso comune per una famiglia romana in difficoltà al costo di 20€ (pasta, sugo, zucchero, farina, ecc.).  Lo staff di Vivi e delle ACLI di Roma si occuperanno di recapitare la spesa ai più bisognosi.

Qui per donare la spesa

Le iniziative #distantimavicini delle ACLI di Roma

Cibo, amore e riciclo: banana bread

Cibo, amore e riciclo: banana bread

  • Postato: Mar 26, 2020
  • Di:
  • Commenti: 0

Squillino le trombe, oggi facciamo un salto in Gran Bretagna per presentarvi uno dei suoi dolci tipici: il banana bread. La sua purea di banane lo rende un cake sofficissimo, il suo profumo di cannella lo rende riconoscibile a kilometri di distanza. E’ l’ideale per chi la mattina per svegliarsi ha bisogno di una coccola o per chi nel pomeriggio è alla ricerca di dolcezza. E poi è un piatto a spreco zero. Il suo ingrediente principe sono le banane, quelle che puntualmente ci scordiamo di mangiare e che diventano così troppo mature.

Da adesso in poi vietato sprecarle.  La parola magica è banana bread.


INGREDIENTI

• 3 Banane
• Cioccolato fondente 65 gr
• Noci 100 gr
• Farina d’avena 120 gr
• Farina integrale 120 gr
• Zucchero di canna 100 gr
• Yogurt Bianco 125 gr
• Olio di semi di girasole 50 ml
• 1 Bustina di lievito
• Cannella 2 cucchiai
• Sale 1 pizzico


PREPARAZIONE

• Iniziamo sbucciando le banane, tagliamole a rondelle e schiacciamole con un forchetta riducendole in una purea da mettere all’interno di una ciotola.

• Tritiamo grossolanamente le noci e il cioccolato e mettiamoli da parte.

• Alla purea di banane aggiungiamo lo yogurt e l’olio.

• Uniamo in una ciotola gli ingredienti secchi: farine, lievito, zucchero, sale e cannella.

• Aggiungiamo le polveri al composto precedente, mescolando prima con una spatola evitando la formazione di grumi. Uniamo anche le noci e il cioccolato tritati e mescoliamo per bene.

• Ungiamo lo stampo da plumcake con dell’olio e infariniamolo. Versiamo l’impasto nello stampo e cuociamo in forno statico preriscaldato a 170° per circa 50 minuti. Prima di tagliarlo aspettiamo che si raffreddi.

• Il banana bread si può conservare per un paio di giorni sotto una campana di vetro. Inoltre si può congelare una volta cotto e raffreddato, intero o porzionato.


Viva il banana bread!

Buon appetito!

A tavola con le parole della cucina: Pellegrino Artusi

A tavola con le parole della cucina: Pellegrino Artusi

  • Postato: Mar 25, 2020
  • Di:
  • Commenti: 0

Dopo i pasticci linguistici del Settecento e Ottocento, Pellegrino Artusi sistema la lingua della gastronomia e la dispensa degli italiani. 

In teoria non è stato né un cuoco e neanche un letterato di professione. Nei fatti però il cuore e la passione di queste due figure convivono in completa armonia nelle sue ricette. Aggiungiamoci anche che lo contraddistingueva un certo carattere bizzarro e simpatico. No, non stiamo parlando di Antonino Canavacciuolo. Niente Cucine da incubo, niente schiaffoni improvvisi. Oggi vi presentiamo Pellegrino Artusi.

Romagnolo di nascita ma fiorentino di adozione, dopo aver trascorso una vita agiata come droghiere, nel 1981 dà vita a una impresa letteraria dal sapore straordinario. Con una sola forchettata “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie” riesce a metter in ordine la dispensa e la lingua gastronomica italiana.

Ma non perdiamoci nelle presentazioni, oggi la carne al fuoco è davvero tanta.

Tutti insieme appassionatamente

Unire gli italiani a tavola. Nella sua elegante abitazione al centro di Firenze, in compagnia dei suoi due gatti, il gastronomo gentiluomo riscrive, sulla base di questo imperativo, il menù della penisola. Zero stravolgimenti e piatti flambè. La sua è una cucina semplice, economica, e alla portata di tutti.

Attorno alle vivande principali della tradizione romagnola-bolognese e di quella toscana-fiorentina, serve pietanze tipiche del Nord, del Sud (fino a Napoli) e dell’Italia centrale. Ma attenzione, non si limita a scopiazzare da altri ricettari, va ben oltre. L’acqua delle sue pentole è sempre in ebollizione perché prova e riprova i piatti grazie all’aiuto dei suoi due domestici, il cuoco originario di Forlimpopoli (città natale dell’Artusi), Francesco Ruffili, e la governante, Maria Sabatini.

In questa rivoluzione di forchette e pentole partecipa anche il pubblico. Si perché Artusi, cucchiaio dopo cucchiaio, modella un progetto editoriale senza precedenti. La sua opera, dopo la prima edizione, si arricchisce dei suggerimenti e delle ricette di tantissimi italiani. Per sedersi metaforicamente alla sua tavola, basta scrivere una lettere e spedirla a Piazza D’Azeglio, 25. La casella postale è stracolma. “Essere social prima dei social network”, che prelibatezza.


«L’unico suo divertimento era lo scrivere. Il libro lo cominciò quasi per ischerzo. Poi vide che gli veniva bene e vi si appassionò. A poco a poco venne ad avere una corrispondenza con persone d’ogni ceto e d’ogni parte d’Italia […] Era un continuo alternarsi fra lo studio e la cucina, la penna e le pentole. Si provavano le ricette, tutte, una ad una». (da un’intervista di Maria Sabatini del 1936 su “La Cucina Italiana”)

Seguendo questo principio, “La Scienza” diventa presto un best seller che entra nelle case della maggior parte degli italiani. Ancora oggi escono nuove edizioni, contenenti la bellezza di 790 ricette, tra antipasti, brodi, primi e secondi e tanto altro. La leggenda narra che le ricette dell’Artusi vengono sempre bene. Mamme e papa alle prese con i fornelli ringraziano. Di cuore.

Di lessico

In bella vista, al fianco di due classici che hanno contribuito, dopo l’Unità d’Italia, a delineare l’italiano scritto e parlato. Ecco la location de “La Scienza”, tra il Pinnochio di Carlo Collodi e le storie del libro Cuore di Edmondo De Amicis. Il privilegio è tutto meritato perché grazie all’Artusi lievita non solo la cucina ma anche la lingua gastronomica italiana. Per ottenere questo effetto saluta senza troppi convenevoli  gli impasti francesizzanti della letteratura gastronomica precedente. Au revoir. Dire pane al pane, vino al vino. Sentiamo direttamente la sua voce.


«Certi cuochi, per darsi aria, strapazzano il frasario dei nostri poco benevoli vicini con nomi che rimbombano e non dicono nulla, quindi, secondo loro questa che sto descrivend,a vrei dovuto chiamarla zuppa mitonnée […] Ma io per dignità di noi stessi, sforzandomi a tutto potere di usare la nostra bella ed armoniosa lingua paesana, mi è piaciuto di chiamarla col suo nome semplice e naturale (ricetta 38, Zuppa su sugo di carne)»

Difendere l’italiano dall’assalto francese e pensare all’unità della lingua italiana, non sono operazioni frutto del caso; Artusi nella sua biblioteca personale ha passato anni ed anni a studiare la letteratura italiana, con la lente d’ingrandimento posata su una miriade di opere di lingua e dizionari. Tre i verbi al centro del suo principio linguistico di stampo manzoniano: razionalizzare, semplificare e uniformare.

Per raccontare le sue ricette si basa sulla lingua di Firenze, adottata nella vitalità della tradizione parlata e nella ricchezza di quella scritta. Anche in fatto di lingua insomma, il suo è un palato sopraffino.

Il bagaglio lessicale è per tutti i gusti. Troviamo parole dell’uso corrente come: l’aggettivo adagino adagino che indica il ‘bollire della pentola’; campare ‘vivere’; garbare ‘piacere’; stuccare ‘nauseare’. Tecnicismi culinari, che oggi sentiamo in ogni cucina: mettere al fuoco, rosolare, cuocere a bagno maria, fare un soffritto, prendere colore, legare, ridurre, mandare in tavola, pestare, spolverizzare, fare un battutto. Non mancano parole dialettalicoteghino, risi e luganighe ‘riso in brodo con la sasiccia’ e tridura ‘un tipo di minestra’.

Riguardo i termini stranieri li rende più vicini possibili al dolby surround italiano: bordò, glassa, gruiera ‘formaggio a groviera’, regime ‘dieta’. Altri invece sono consacrati nella loro forma originaria: babà, brioches, plum-cake, rhum, sandwichs, dessert, cognac, pureè, Strudel. Peccato per la sua creazione lessicale sgonfiotto, utilizzata per i soufflet. Non supera l’esame del tempo. Sarebbe stato un dolce ancora più eccezionale.

Di sintassi

Se con il lessico Artusi realizza un piatto straordinario, con la sintassi si supera. Impartisce ricette, precetti di igiene e di economia domestica, dosandoli con una serie sconfinata di racconti e aneddoti personali. Due su tutti: il giudizio del severissimo professore Trevisan che agli albori della sua opera ne predice il fallimento (non un grande scommettitore!) e l’aneddoto dei suoi due compaesani che, non sapendo cosa farne, vendono al tabaccaio due copie del libro, appena vinte con la lotteria.

In questa prosa si inserisce un tono di voce colloquiale e cordiale, che intuiamo già dalla prima ricetta del manuale:


“Lo sa il popolo e il comune che per ottenere il brodo buono bisogna mettere la carne ad acqua diaccia e far bollire la pentola adagino adagino e che non trabocchi mai”.

Questa capacità narrativa si riflette anche in una ricca serie di modi di dire proverbiali. Parlando delle polpette racconta che “questo è un piatto che tutti lo sanno fare cominciando dal ciuco”. Sulla frittata non ha dubbi “e chi è nel mondo che in vita sua non abbia fatta una qualche frittata?. Qualche dubbio invece sulla voglia di studiare dei nobili romagnoli: “avete dunque a sapere che di lambiccarsi il cervello su’ libri, i signori di Romagna non ne vogliono saper bucciata”.

Forse è proprio questo il segreto del suo successo. Insegnare a cucinare, intrattenendo. Intrattenere, insegnando a cucinare. Una cosa però è certa: Pellegrino Artusi, né cuoco e neanche letterato di professione, ha scritto “adagino adagino” il romanzo della cucina italiana. Senza neanche tirare uno schiaffone!

 

Fonti: Frosini G., L’italiano in tavola, in Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, a cura di Trifone P., Carocci, Roma, 2009, pp.60-63.
Lubello S., La lingua della gastronomia, www.treccani.it, 2010.
www.pellegrinoartusi.it

 

 

 

 

Cibo, amore e riciclo: lo strudel di mele

Cibo, amore e riciclo: lo strudel di mele

  • Postato: Mar 20, 2020
  • Di:
  • Commenti: 0

Avete esagerato nel comprare le mele? Non vi azzardate a sprecarle. Oggi abbiamo nella nostra dispensa no waste, curata da Silvia, volontaria del Servizio Civile Universale, una ricetta che fa proprio al caso vostro. Il dolce re della cucina sudtirolese: lo strudel di mele.

Il suo nome deriva da una parola di origine tedesca štrùudël che significa ‘vortice’, ma sentite un po’…le sue origini sono turche. Si avete capito bene. Intorno al XVII secolo l’Impero Ottomano domina l’Ungheria e i suoi chef preparano un piatto simile chiamato baklava. “Mamma li turchi che dolce”.

Gli Ungheresi non se lo lasciano sfuggire e lo trasformano nel contemporaneo strudel di mele: un dolce arrotolato composto da un involucro di una sfoglia di pasta molto sottile, detta pasta tirata. Il suo sapore conquista l’Austria e di riflesso il Trentino Alto Adige, che oggi ne conserva tutti gli antichissimi segreti. Svelato il suo viaggio, adesso è arrivato il momento di conoscere la sua ricetta.


INGREDIENTI

PER LA PASTA TIRATA

• Farina 00 300 g
• Acqua tiepida 120 ml
• 1 Uovo a temperatura ambiente
• 1 cucchiaio di olio di semi
• 1 pizzico di sale

PER IL RIPIENO

• Mele 1 kg
• Zucchero 50 g
• Acqua 50 ml
• Uvetta 60 g
• Pinoli 60 g
• Rum 2 cucchiai
• Cannella in polvere 4 cucchiai
• Succo di limone 1 cucchiaio


PREPARAZIONE

• Iniziamo preparando la pasta: in una ciotola versiamo la farina setacciata e il sale, poi aggiungiamo l’uovo, l’acqua e iniziamo ad impastare con le mani. Uniamo l’olio e lavoriamo ancora il composto fino ad ottenere un impasto omogeneo. Se dovesse risultare troppo appiccicoso possiamo aggiungere una manciata di farina.

• Trasferiamo il panetto su un piano e lavoriamo fino a che risulterà elastico. Quando abbiamo finito, formiamo una palla e trasferiamola in una ciotola leggermente unta, copriamola con pellicola 8 e lasciamola riposare per un’ora al fresco.

• Prepariamo il ripieno: sbucciamo le mele e tagliamole in quattro spicchi e poi a fettine sottili. Versiamole in una ciotola capiente e aggiungiamo lo zucchero, il succo di limone e la cannella.

• Intanto mettiamo a bagno l’uvetta nel rum, o se preferiamo, in acqua tiepida.

• Riprendiamo la pasta e stendiamola, su una superficie coperta da forno, in una sfoglia molto sottile, dandogli la forma di un rettangolo.

• Adagiamo all’interno dello strudel il ripieno di mele, l’uvetta (ben strizzata) e i pinoli, facendo attenzione a lasciare libere le estremità lunghe del rettangolo di pasta (circa due cm dai bordi). Arrotolate lo strudel su se stesso, aiutandoci con la carta da forno. Tagliamo l’eccesso di pasta ai lati e sigillamolo bene.

• Spennelliamo tutta la superficie dello strudel con del latte e inforniamo a 180° per 40 minuti.


Ah..l’ultimo consiglio va a braccetto con la nobilissima crema inglese e con la classicissima panna montata. Tanto per aumentare il vortice di sapore.

Buon appetito

Cibo, amore e riciclo: polpette di pane

Cibo, amore e riciclo: polpette di pane

  • Postato: Mar 18, 2020
  • Di:
  • Commenti: 0

È una storia che si ripete puntuale, quasi tutti i giorni. Quando compriamo il pane esageriamo sempre nella quantità. È più forte di noi. Oggi Silvia, la nostra volontaria di Servizio Civile, appassionata di cucina a spreco zero, mette sul piatto un’idea buonissima e semplicissima per riciclarlo.

Croccanti fuori e morbide dentro, le polpette di pane sono l’ideale per uno sfizioso aperitivo o per un contorno gustoso e sano da giocarci a pranzo o a cena. Insomma un bel jolly da non sprecare.

INGREDIENTI

• 3 panini secchi
• 2 uova
• acqua q.b.
• sale e pepe q.b.
• olio
• pangrattato q.b.
• basilico 4 ciuffi
• 1 cipolla

PREPARAZIONE

1) Dopo averlo spezzettato, mettiamo il pane a mollo e lasciamolo riposare per 15 minuti, mescolandolo ogni tanto con una forchetta.

2) Tagliamo una cipolla e sfumiamola a fiamma bassa.

3) Laviamo le foglie di basilico, tritiamole finemente e aggiungiamole al pane. Aggiungiamo due uova intere salate e pepate insieme a una cipolla cotta. Impastiamo bene con le mani per 4-5 minuti per amalgamare bene tutti gli ingredienti.

4) Riscaldiamo il forno a 180°C . Sistemiamo un foglio di carta da cucina su una teglia e in una ciotola a parte mettiamo una quantità abbondante di pangrattato.

5) Immergiamo ogni polpetta nel pangrattato e infine disponiamole sulla teglia. Irrorate con l’olio. Infornate per 15 minuti. Giriamo le polpette e continuate la cottura per altri 15 minuti.

Ed ecco servito un piatto buono come…

A tavola con le parole della cucina: il Settecento

A tavola con le parole della cucina: il Settecento

  • Postato: Mar 16, 2020
  • Di:
  • Commenti: 0

Il Settecento segna un punto di svolta nella cucina medievale. La rivoluzione arriva dalla Francia e porta con se sapori più naturali. Per l’italiano della cucina però sono tempi difficili: nelle pagine dei ricettari trionfa il francese.

“La zuppa di cavolo deve sapere di cavolo, il porro di porro, la rapa di rapa”. In questo tweet di Nicolas de Bonnefons, valletto di Stanza di Re Luigi XIV, è racchiusa tutta la rivoluzione gastronomica del XVII secolo.  Semplicità, naturalezza e separazione dei sapori. Su questi tre ingredienti si basano le nuove stories del menù culinario, scritto a Parigi e dintorni.

L’Illuminismo arriva anche a tavola, finalmente si bada più al gusto che alla sensazionalità dei piatti. Gli chef italiani si adeguano, sistemando il loro profilo. Salutano salse acidespezie per fare amicizia con quelle grasse (su tutte la maionese) e con erbe dagli aromi più delicati. Intanto dicono stop agli impasti medievali: da adesso in poi a ogni gusto, dolce, salato, agro e piccante, corrisponderà una portata ben definita.

Che la rivoluzione francese abbia inizio!

La nouvelle cousine fa da influencer

Arriviamo a noi e alle nostre questioni linguistiche. Se la cucina italiana fa un passo decisamente in avanti in termini di gusto e sapore, lo stesso non si può dire per le sue parole. Sono tempi duri infatti per l’italiano gastronomico: il lessico della nouvelle cousine invade i ricettari del secondo Settecento e dell’Ottocento. Asterix e Obelix hanno più follower di Cesare e compagni. L’opera che testimonia appieno questa massiccia influenza della lingua francese è il Cuoco piemontese perfezionato a Parigi, scritto a Torino nel 1766. L’autore è un misterioso chef di origine sabaude, che dalla Francia fa ritorno nella penisola italiana, con un ricco bagaglio di pietanze nuove e di termini d’oltralpe.

 

Nelle ricette e nelle indicazioni di servizio, infatti, dilagano voci come escalope ‘fetta di carne sottile’, fricandeau ‘noce di vitello in casseruola, lardellata e aromatizzata con erbe’, bechamel ‘besciamella’, court-bouillon ‘brodo di corte’, hors d’ouvre ‘antipasto’, entrèes ‘prima portata’, assiette ‘piatto di biscotti e frutta secca per fine pasto’. Suona la marsigliese anche il settore della pasticceria. Questo il poker di dolci: souflets, mignones, meringues e gateau.

Non mancano errori grossolani e trascrizioni malconce. Cresson alènois, parola con cui si indica una specie di crescione che prende il nome dalla città di Orlèans, diventa crescione alla noce. Mentre con il termine carbonata a costa di bue in papiglilote si intende ‘al cartoccio’. Mah. Nel lessico della cucina regna un po’di confusione.

Che pasticcio con l’italiano

Queste voci passano da un ricettario all’altro e danno vita a dei pasticci linguistici di proporzioni bibliche. Ne è un esempio perfetto l’Apicio moderno, a firma di Francesco Leonardi. Un cuoco pluristellato di origine romana che gira in lungo e largo per tutta l’Europa. E’ il Giorgio Locatelli del Settecento, per intenderci.

Prima si forma a Parigi, nella cucina del Maresciallo di Richelieu, poi lavora a Napoli per il principe di Francavilla, infine diventa il cuoco dell’imperatrice Caterina di Russia. Tutta questa immensa esperienza internazionale la mette servizio della sua opera letteraria, pubblicata nel 1790 in ben sei tomi, contenenti la bellezza di 3000 ricette.

Partiamo dal suo principio linguistico guida:

Rapporto però a nomi de’ Piatti, Zuppe, Salse, o latro si rende impossibile di cambiarli, dovendosegli dare quello che portano seco dalla loro origine sia Italiano, Francese, o d’altra nazione. Lo stesso ho creduto di fare dell’ortografia Francese, servendomi soltanto dei nomi.

Cosa significa? Che alla norma ortografica preferisce una trascrizione fonetica più fedele possibile all’italiano. La grammatica piange. Leonardi è un grande chef ma come professore d’italiano lascia parecchio a desiderare. Gattò, fondù, torta alla sciantiglì, escaloppe alla Barrì, alla Riscelieù, alla Montespà. Ce n’è per tutti i gusti.

Nelle pagine dell’Apicio Moderno prende forma quindi un gergo maccheronico difficile da digerire, così l’autore si trova costretto a inserire, in corso d’opera, nel Primo e nel Sesto Tomo una spiegazione dei termini francesi utilizzati per venire in soccorso dell’autore.

Ecco qualche esempio che citiamo direttamente dalle sue pagine. Liason  sta per ‘rossi d’uova stemperate con acqua, o brodo, o latte’. Aspic, significa ‘brodo chiarificato’. Mentre chi voleva ordinare una ‘braciola’ doveva chiedere di  una cotelette.

Ma tranquilli la situazione sta per cambiare, all’orizzonte si intravede Pellegrino Artusi. Il Manzoni della lingua gastronomica.

“Qui s’ha da fare l’italiano della cucina”. Fatto per bene però.

Uova in frigo o fuori? È questo il problema

Uova in frigo o fuori? È questo il problema

  • Postato: Mar 13, 2020
  • Di:
  • Commenti: 0

Appunti tascabili su come conservare le uova.

In tempi di quarantena è importante più che mai limitare gli sprechi alimentari; conservare in modo adeguato il nostro cibo è fondamentale se vogliamo ridurre i viaggi al supermercato. Diamo allora uno sguardo alla questione uova: vanno o non vanno conservate in frigorifero? È questo il dilemma.

Per arrivare a una risposta non ci serve l’aiuto di William Shakespeare. La spiegazione è semplice. Sebbene al supermercato vengano riposte su scaffali non refrigerati, una volta che le portiamo nelle nostre case è bene conservarle in frigorifero. Ciò è confermato anche dall’indicazione sulla confezione che recita: “conservare in frigorifero dopo l’acquisto”. Come mai? La risposta a questo apparente controsenso sta nel fatto che il peggior nemico delle uova è lo sbalzo termico: una brusca variazione di temperatura potrebbe generare una condensa che facilita la proliferazione di batteri sul guscio. Ciò che garantisce la conservazione delle uova è pertanto una temperatura il più possibile costante.

Nell’ipotesi in cui l’uovo venisse conservato in frigorifero anche al supermercato, verrebbe acquistato a una temperatura di circa 4°C; durante il tragitto verso casa la sua temperatura salirebbe a quella ambientale, per poi scendere nuovamente a cifre prossime allo zero nel frigorifero casalingo. Il danno termico sarebbe inevitabile e la qualità del prodotto sarebbe certamente compromessa.

Quindi, per rispondere al nostro dubbio, quando torniamo a casa ricordiamoci di mettere le uova in frigorifero, così come indicato sulla confezione. È infatti sempre importante prestare attenzione alle istruzioni d’uso in etichetta: una piccola accortezza che fa la differenza nella lotta allo spreco alimentare quotidiano.

Per un marzo a tutta frutta. Kiwy, avocado e pompelmo.

Per un marzo a tutta frutta. Kiwy, avocado e pompelmo.

  • Postato: Mar 09, 2020
  • Di:
  • Commenti: 0

Le giornate si allungano, l’inverno entra nel cassetto dei ricordi, la primavera non più così timida bussa alle nostre porte. Siamo a marzo. Un mese che in termini di frutta fa rima con kiwi, avocado, e pompelmo. Scopriamo insieme benefici e proprietà di questo tridente salutare.

Marzo ventoso, mese adolescente, marzo luminoso, marzo impenitente
(Carlo Michelstaedter)

Li vuoi quei kiwi? Si

L’apparenza inganna. Quante volte ce lo siamo sentiti dire, quante volte l’abbiamo detto. Un proverbio che vale anche per la frutta, soprattutto per il kiwi. Lo ammettiamo, non è proprio il massimo per estetica ma in fatto di salute non scherza per niente. Ecco alcune delle sue infinite proprietà e benefici.

Campione di vitamina C
Iniziamo con una sorpresa: il kiwi batte in volata tutti gli agrumi per il suo contenuto di vitamina C. 1 kiwi al giorno copre il fabbisogno giornaliero di vitamina C (60 mg). Calcisticamente parlando quindi, è un difensore davvero eccezionale, capace di contenere gli assalti alle nostre difese immunitarie e di stoppare influenza e raffreddore.

Amico del cuore
Cuore matto…matto da legare? In soccorso arriva il kiwi. Grazie alla sua concentrazione di potassio regola i livelli di pressione sanguigna e va in difesa del cuore. Aumenta i livelli di colesterolo buono. Olè.

Digestione? No problem
La sua ricchezza di fibre lo rende un frutto che facilita la digestione. Inoltre il kiwi fa entrare in partita un composto vegetale che si chiama actidina. La sua forza? migliora la digestione delle proteine, riuscendo a scomporle. Quindi dopo aver mangiato una bella bistecca, un kiwi è l’ideale.

Un avocado è per sempre

Dalle montagne del Messico alle tavole degli italiani. Con il suo sombrero l’avocado di strada ne ha percorsa davvero tanta. Il motivo? Sta bene su tutto, hamburger, centrifughe, toast, insalate e frullati. E poi fa un figurone sui social. Cercate #avocado. Miliardi di foto. Attenzione però. Non è solo buono e “instagrammabile”. Dietro a quella forma tondeggiante, così simile a una pera, c’è un mondo di benessere. Questi alcuni dei suoi punti forti.

A tutto potassio
Se dici potassio, pensi subito alle banane. Invece no. 100g di avocado contengono più potassio di 100g di banana. La partita finisce 450 mg contro 350 mg. Cosa significa? Che mangiare avocado aiuta la salute cardiaca e contribuisce a tenere sotto controllo la pressione sanguigna. Vi pare poco?

Capelli e viso, mai cosi lisci
Altro che estetista. Vitamine, acidi grassi, e minerali contenuti nella sua polpa, rendono l’avocado un elisir unico di bellezza. Per pelle liscia e capelli morbidi e fluenti. Da custodire gelosamente nel beauty case.

In forma e in vista
Lasciate perdere le bevande energizzanti. Per assicurarvi lo sprint energetico giusto, fidatevi dei tantissimi sali minerali presenti nell’avocado. L’ideale è mangiarlo a colazione. Alla salute dei vostri occhi invece ci pensano due caroteinoidi: luteina e zeaxantina.

Pompelmo: un arancio che ce l’ha fatta

La leggenda vuole che sia nato nel ‘700, da un incrocio tra il pomelo e l’arancia, al caldo delle Isole Barbados. Se le origini sono misteriose, noi però abbiamo tre certezze. Il pompelmo è light, amarissimo e dissetante. Ma non solo. Sentite qui.

No al diabete, sì al buon umore
Flavonoidi è la parola magica che rende il pompelmo un acerrimo nemico del diabete. La loro presenza regola i livelli di zucchero nel sangue e contribuisce a evitare plicchi glicemici. Vietato sprecare la buccia. Motivo: è una miniera di citrale, limonene e pinene. Oli essenziali che aumentano le difese immunitarie e caricano di positività il nostro umore.

Sogni d’oro
Difficoltà ad addormentarsi e riposare bene? Vi forniamo un assist vincente: prima di andare a dormire, un bicchiere di spremuta di pompelmo. Grazie al suo contenuto di triptofano concilia il sonno. Gol e buona notte.

Colesterolo? No grazie
Il pompelmo è il centrocampista che tutti gli allenatori vorrebbero avere in squadra. Oltre a favorire la digestione, gestisce il livello di colesterolo nel sangue. Tutto merito della naringenina e del magnesio.

A tavola con le parole della cucina: il Medioevo e il Rinascimento

A tavola con le parole della cucina: il Medioevo e il Rinascimento

  • Postato: Mar 09, 2020
  • Di:
  • Commenti: 0

Tra termini stranieri e dialettali l’italiano della cucina custodisce un sapore unico. Scopriamo il suo lessico. Prima tappa: Medioevo e Rinascimento.

All’angolo tra le tavolate domenicali, le sfide televisive di Masterchef e le pagine dei ricettari che promettono piatti da sogno, c’è una lingua che mette d’accordo e di buonumore proprio tutti. È l’italiano della cucina. Sul piatto una bella fetta di termini stranieri che fanno tanto brunch o nouvelle cosuine, con accanto una doppia porzione di parole prese in prestito dal dialetto, che ci fanno sempre sentire a casa.

La redazione de “Il cibo che serve” ha deciso addentrarsi in questa lingua dal sapore unico, capace di veicolare tradizione e innovazione, identità e scambio con il mondo. Prendiamo la rincorsa e iniziamo il nostro viaggio. Si bussa alle porte del Medioevo e del Rinascimento.

Buon appetito, pardon…buona lettura.

Medioevo, tra ricettari e liste della spesa

Prima curiosità: nel Medioevo l’italiano della cucina suona note marsigliese. A testimoniarlo è il ricettario conservato nel Codice 1071 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, il capostipite dei manuali di cucina contemporanei. Nonostante sia scritto in fiorentino, il debito lessicale con i cugini d’oltralpe è di qualche zero. 

Qui campeggia il famoso blasmangiere cioè ‘biancomangiare’. Dalla Spagna fino alla penisola italiana, passando per la Germania o più precisamente l’Alemannia, è il piatto forte di tutti i “menu” medievali. Si preparava con carne di pollame, farina di riso, brodo o latte. Oggi invece il termine designa un dolce, fatto con  mandorle e latte. Continuando ad addentrarci tra le antiche carte, troviamo altri termini di derivazione francese, come cialdello preparazione per carne o pesce’, brodetto ‘intingolo’, e morsello ‘boccone’.

Per quanto riguarda il testo, lo schema è preciso. Tutte le ricette si aprono con una frase ipotetica Se vuoli fare…accompagnata dal nome del piatto. A questa formula fa seguito una ricca serie di imperativi toglie mettistemperamestalo…che indicano le diversi fasi della preparazione. Guai a sbagliarsi.

Restiamo a Firenze ma spostiamoci nella Biblioteca Medicea Laurenziana. Qui c’è la più antica lista da spesa, stilata per la mensa dei Priori di Firenze. Una fonte interessantissima che restituisce il lessico del mercato fiorentino degli anni quaranta del XIV secolo, e che ci racconta tanto sui gusti dei commensali. Sentite un po’ di cosa andavano matti: pappardelle, cacio parmigiano o parmigiano, cialda (e cialdone), mostarda (dal francese moustarde), e i vermicelli, lessicalmente parlando gli antentati dei spaghetti. Dulcis in fundo, il pane impepato, già promesso sposo del Natale. Vi suona familiare?

Nelle corti rinascimentali

Squillino le trombe. Con il Rinascimento la cucina diventa un’arte raffinata. Si deve soddisfare il palato dei Signori che banchettano a corte. L’impresa è ardua. Affidiamoci alle ricette del ferrarese Cristoforo Messi Sbugo. Funzionario della corte Estense ma soprattutto il cuoco per eccellenza del Rinascimento.

Nel 1549 da vita all’opera gastronomica “Banchetti, compositione di vivande et apparecchio generale”. Un trattato che illustra nel dettaglio tutti i passaggi per allestire un banchetto signorile, e che tra le sue preziose pagine contiene la bellezza di 350 ricette. Tutte d’alta cucina o meglio da 5 stelle Michelin.

Gli ingredienti lessicali? A una base di latino, aggiunge l’immancabile strato toscano, e una spolverata di termini dialettali, provenienti specialmente dall’area settentrionale. Ecco servito il modulo di riferimento per tutta la letteratura culinaria rinascimentale.

Una pagina del trattato “I Banchetti, compositione di vivande et apparecchio generale” di Cristoforo Messi Sburgo (Ferrara 1549).  Fonte https://archive.org/details/

Leggendo il testo, c’è da stropicciarsi gli occhi. Rispondono all’appello numerose strutture sintattiche che sono resistite fino ad oggi. Lo schema alla + aggettivo: salsa alla genovese, maccheroni alla napoletana, riso alla turchesa, lombi di bue alla alemanna, tortelli alla lombarda, uova alla francese. Il suffisso -ata spopola: perata ‘conserva di pere’, agliata ‘salsa d’aglio’, cotognata ‘marmellata solida ottenuta dalla polpa delle mele cotogne’.

Ricca la portata dei diminutivi: frittele, pastatelle, stellette, tortelletti, tartarette, cervelletti. Intanto appaiono per la prima volta le crescentine ‘sfogliatine dolci’, la sfogliata (d’olio, di mandorle) ‘pasta sottile riavvolta’, il torrone, e…rullo di tamburi gli truffoli, oggi meglio noti come ‘struffoli’, dolce tipico delle nonne meridionali.

Chissà se a tavola gli Estensi erano soliti chiedere il bis?
Alla prossima puntata.

 

Fonti:
Frosini G., L’italiano in tavola, in Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, a cura di Trifone P., Carocci, Roma, 2009, pp.60-63.
Lubello S., La lingua della gastronomia, www.treccani.it, 2010.

 

Pagina 6 di 13« Prima...45678...Ultima »