Fame, resistenza e memoria; il cibo nei campi di prigionia
La Giornata della Memoria ci invita a riflettere su molteplici aspetti delle sofferenze vissute da milioni di prigionieri nei lager. Tra questi, il cibo, o meglio, la sua drammatica assenza, occupa un posto centrale, diventando sia simbolo di privazione che atto di resistenza.
Per gli internati militari italiani (IMI), catturati dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e deportati nei campi di prigionia nazisti, il cibo rappresentava una delle principali forme di oppressione. Le razioni giornaliere erano ridotte al minimo: una zuppa liquida e insipida, un pezzo di pane raffermo e, a volte, una piccola porzione di margarina o salsiccia. In queste condizioni, la fame costante diventava parte integrante della strategia di controllo e dell’annientamento fisico e psicologico, a cui venivano sottoposti.
Eppure in questo scenario di privazione, molti prigionieri sono riusciti a resistere, trasformando la fame in un atto di dignità. Tra di loro c’era anche il noto scrittore e umorista, Giovannino Guareschi, che nei suoi racconti ha descritto la miseria quotidiana dei campi di prigionia con il suo tocco unico, capace di mescolare ironia e profondità. In un passaggio emblematico, Guareschi racconta che “la fame era così grande da far sognare piatti di spaghetti” o immaginare pasti che sembravano ormai appartenere a un’altra vita.
I suoi scritti offrono una testimonianza preziosa di come il cibo, o il suo ricordo, diventasse un rifugio mentale per i prigionieri. In Diario Clandestino, scrive:
“Redigono in collaborazione ponderatissime liste di pranzi storici da celebrare al ritorno. C’è chi raccoglie indirizzi di locande con distinte di piatti caratteristici e compila guide gastronomiche d’Italia Altri annota accuratamente migliaia di ricette dei più complicati ammennicoli culinari. L’eterno e vano parlare di cibarie e l’eterno e vano pensare al mangiare hanno aumentato il desiderio”.
Il cibo, per i prigionieri, non era solo un bisogno materiale. Condividerlo, conservarlo o anche solo sognarlo era un modo per mantenere viva la speranza e il senso di umanità. La fame, non spezzava la solidarietà tra compagni. Spesso al contrario era capace di rafforzarla. Episodi come il baratto di un oggetto personale per un pezzo di pane o il recupero di bucce di patate dai rifiuti mostrano, invece, la capacità di adattarsi e resistere anche nelle condizioni più estreme.
Con la liberazione, il cibo tornava a essere il simbolo di una nuova vita. Gli ex prigionieri ricordano con emozione il primo assaggio di latte condensato, cioccolato o minestre in scatola offerte dagli alleati. Sapori semplici che assumevano il significato di una parola su cui era calato il buio. Libertà!
L’articolo è a cura di Emanuele Falcinelli, volontario Servizio Civile Universale ed esperto enogastronomico.
FONTI: Fontaneto, J. (2024, Gennaio 27). “Giorno della Memoria, così nei lager la fame diventò uno strumento di resistenza”. La Repubblica: https://www.repubblica.it/il-